PREMESSA E RINGRAZIAMENTI

Milano, 15 Dicembre 1997

A metà Novembre sono stato invitato dal prof. Marco Somalvico, ordinario di Intelligenza Artificiale al Politecnico di Milano, a preparare un breve seminario che avrei dovuto tenere davanti agli allievi del suo corso ai primi di Dicembre. Tale seminario avrebbe dovuto vertere su Epicuro e concentrarsi principalmente sugli aspetti teoretici del pensiero del filosofo di Samo. Ben presto, resomi conto dell'esiguità delle fonti nonché della mia difficoltà a creare i necessari collegamenti con le tematiche più vicine all'Ingegneria della informazione e della AI, ho deciso di integrare il compito originario in uno di più ampio respiro, che gettasse lo sguardo sul tema generale dell'informazione e del paradigma rappresentazionale della conoscenza.

Ferme restando le caratteristiche e le finalità del lavoro, necessariamente sintetico e di mera compilazione, ho accettato l'invito a renderlo pubblico, così com'è, senza ulteriore elaborazione. Sono infatti convinto che se esso cela in sé qualche valore, lo ha solo in quanto capace di provocare uno scambio dialettico di opinioni sulle tematiche che esso tocca pur tanto sinteticamente. Le persone che volessero interessarsene e che volessero condividere con noi critiche e opinioni a riguardo, sono invitate ad esprimere le loro idee e posizioni, nonché a presentare a loro volta quei contributi che reputassero interessanti ai fini della discussione.

Ringrazio il succitato Professore Marco Somalvico per la fiducia e l'entusiasmo con cui ha prima proposto e poi accolto questo semplice lavoro, nonché Gianmarco Armellin per la cortese disponibilità a rendere pubblico tale lavoro agli utenti del 'web'. Ovviamente rivendico come mia propria la non rara, invero, facoltà di scrivere inesattezze nonché la capacità di spingere l'ignaro lettore nelle braccia di Hypnos e Morfeo.

F.C.

Qualche riflessione sulla parola INFORMAZIONE (e sulla sua storia...)

"Una scienza che trascuri il suo passato è destinata a ripetere i propri errori e non sarà in grado di visualizzare il proprio sviluppo"

[Varela F.J. et al., "La via di mezzo della conoscenza"]

Sono stato invitato a parlare di filosofia: la cosa mi avrebbe immediatamente fatto disperare, (e probabilmente avrebbe fatto disperare anche voi, dal momento che sono un semplice studente di Ingegneria Informatica) se non avessi visto in tale opportunità l'occasione di collegarmi, in maniera per certi tratti inusuale (almeno in questo contesto), con molti aspetti interessanti dell'informatica (e dirò di più, con gli aspetti più fondamentali di essa).

Una definizione generale di 'pensare' può essere 'esaminare col pensiero, raffigurarsi nella mente' [1] ; secondo Vernon Pratt pensare è, per noi sostanzialmente, un 'manipolare rappresentazioni'. Del resto i moderni cognitivisti usano il termine 'informazione' per indicare un concetto molto simile: il celebre filosofo emergentista Daniel Dennett è piuttosto chiaro a riguardo: "Una volta compresa la funzione delle menti (dei dolori, delle credenze, e così via), dovremmo essere in grado di realizzare menti (o parti di esse) con materiali alternativi dotati di quelle competenze. A molti teorici - me incluso - è sembrato ovvio che la funzione delle menti sia quella di elaborare informazione."[2]

Generalmente, però, non siamo sempre e totalmente consapevoli di quanto la nostra cultura, il nostro modo di pensare e... noi stessi dopo tutto, diamo per scontato ciò che intendiamo per 'pensare'. Per il senso comune 'pensare' è semplicemente 'vivere' in un mondo 'interiore', in un mondo che definiamo 'mentale' appunto per distinguerlo da un mondo 'reale', diverso da esso in una qualche sottile ma fondamentale maniera. Questa è una domanda fondamentale: in quale misura il mondo mentale è 'diverso' da quello reale? In quale rapporto è con esso? Ed esiste veramente una distinzione tra questi due mondi? E cosa significa l'avverbio 'veramente', in questo caso?

Per il filosofo Emanuele Severino, l'Uomo, pur cercando di mettere da parte il più possibile 'tare' e convinzioni imputabili alla propria educazione e cultura (la cosiddetta 'nurture') rimarrà pur sempre convinto, 'naturalmente' (e cioè per la sua propria 'nature'), di tre tesi fondamentali [3]:

1) Il mondo in cui viviamo e i suoi processi sono indipendenti da noi e dalla coscienza che ne abbiamo.

2) Il mondo in cui viviamo è esterno alla nostra mente.

3) Quando riflettiamo sul mondo, ciò che veniamo a sapere appartiene effettivamente al mondo sul quale riflettiamo.

"In definitiva il mondo è sì indipendente ed esterno alla nostra mente ma si mostra a essa, ossia è conoscibile in certi suoi tratti, sia pure limitatissimi "[4].

La questione si complica di molto quando si vuole ragionare, riflettere, proprio sul modo in cui si riflette e si ragiona: non possiamo evitare un pericoloso quanto affascinante 'gioco di specchi' in cui lo spettatore è spettacolo e colui che pensa è a sua volta oggetto di pensiero, e cioè è sottoposto ai medesimi modelli interpretativi che vengono applicati per conoscere il mondo 'esterno', consci o inconsci che siano. Per il senso comune, le cose sono piuttosto semplici: la nostra mente 'lavora' nel suo mondo, quello dei modelli e delle rappresentazioni, un po' come noi, il nostro corpo cioè, lavoriamo in quello reale, della materia e dei cinque sensi: nella nostra mente noi esperiamo, costruiamo, elaboriamo e manipoliamo (con le 'mani'dell'intelletto) oggetti mentali, copie, modelli, rappresentazioni, forme delle cose che stanno 'di fuori'. Lo stesso termine 'manipolare' è tutt'altro che fuori luogo: basti pensare alle parole che usiamo quotidianamente per indicare la nostra attività intellettiva: pensare deriva da pendere, in latino pesare attentamente con mano; capire deriva da capere, prendere; concepire deriva da cum-capere e lo stesso termine com-prendere è piuttosto autoesplicativo a riguardo...

Quanto è giusto questo modo di vedere le cose? Cioè, cosa c'è di vero, in esso? Non è nostro compito soffermarci ora su queste questioni, né dare un contributo originale a ciò che secoli di filosofia e decenni di scienza cognitiva (tra cui anche discipline tradizionalmente più 'sperimentali', come l'Intelligenza Artificiale...) hanno accumulato lungo la storia del pensiero occidentale (teoretico e non).

D'altro canto ci sembra cosa utile rendersi conto che il 'modello rappresentazionale' (questo è il nome che viene dato a ciò a cui il senso comune porta 'naturalmente') non è l'unico paradigma che si può dare riguardo all'umano conoscere; parimenti, ci sembra utile comprendere che è solo in tale paradigma che si dà lo 'spazio' concettuale necessario per poter rendere anche solo concepibile l'idea che i computer possano 'pensare' (qualsiasi cosa ciò voglia dire...). In questo senso ripercorrere lo sviluppo di tale idea fino alle sue 'origini' può essere interessante e proficuo, nonché utile come chiave di lettura del passato, per capire meglio e più in profondità il presente e quindi per poter progettare più consapevolmente il futuro.

Tali origini risiedono nel concetto di forma-idea come esso è stato elaborato nel pensiero di Platone e di Aristotele. Tale concetto, come era inevitabile che fosse, ha avuto una graduale evoluzione lungo i secoli: si arricchì e si consolidò nella scolastica e in Tommaso d'Aquino; quindi contribuì, attraverso una propria profonda trasformazione ad opera di Descartes e degli empiristi inglesi, a creare la base filosofica del 'pensare come ragionamento ed elaborazione simbolica', la meccanizzazione della quale costituisce l'origine storica e concettuale dell'informatica e dell'intelligenza artificiale (una seconda corrente prettamente filosofica e spiritualista, portò invece il concetto di Idea 'platonica' fino alla sua completa maturazione all'interno della metafisica Hegeliana). Noi qui non ci prefiggiamo certo il compito di tracciare una seppur concisa storia dell'idea... di Idea, ma bensì di dare dei punti, per così dire 'prospettici', da cui possa magari risultare più chiara l'interdisciplinarità della filosofia tradizionale con le scienze dell'informazione automatica. In particolare, il nostro fine sarà quello di ricollegarci, per quanto ne saremo capaci, con alcune delle idee generali che vengono presentate in quei corsi di Ingegneria Informatica che si interessano di modellizzazione della conoscenza e quindi alle modalità 'modellizzabili' di essa [5].

L'attenzione è allora, giustamente, indirizzata più sui fini che sulle origini, dal momento che ciò che ci si propone in tali discipline è niente di meno che l'affinamento di metodologie atte a sviluppare (e realizzare) artefatti (cioè macchine) che emulino il conoscere e che servano, oltre che a farci fare meno fatica e (si spera) a semplificarci la vita, per migliorare o incrementare l'efficacia di ciò che noi facciamo con il nostro cervello e con uno dei suoi prodotti più preziosi, e cioè la cultura (o 'conoscenza condivisa', tra cui annoveriamo sia la Scienza che la Tecnologia).

Il cammino verso le origini, d'altro canto, non presenta meno difficoltà, anche perché non solo richiede una certa familiarità con la storia delle idee filosofiche ma esige anche una attenzione particolare riguardo al loro sviluppo ed alla loro evoluzione, che una certa critica moderna vuole contestuale al mutamento della stessa società e cultura occidentale. Ciononostante, tale "cammino" può riservare altrettante sorprese e soddisfazioni e soprattutto essere, secondo la mia opinione, molto utile quando esso ci aiuti a svelare aspetti delle idee che usiamo tutti i giorni che altrimenti sarebbero stati difficili da vedere.

Infatti, la porta per intraprendere questo viaggio a ritroso nel tempo e nella cultura passa abbastanza sorprendentemente per il linguaggio che parliamo tutti i giorni e per parole di cui abbiamo ormai dimenticato il senso più profondo, e cioè, di cui trascuriamo inconsapevolmente il senso originario. Questo avviene poiché la nostra lingua, e questo è riscontrabile anche nelle parole più comuni e frequenti, ha forti radici nella lingua greca, così come la nostra cultura è fortemente permeata della cultura greco-ellenistica come essa si è sviluppata (soprattutto dal punto vista speculativo dei suoi più notevoli pensatori) nei primi sei secoli prima di Cristo. Come dice Severino:

"[il pensiero greco] sta alla base dell'intero sviluppo della civiltà occidentale, e le forme di questa civiltà dominano ormai su tutta la terra e determinano perfino gli aspetti più intimi della nostra esistenza individuale. [...] Arte, religione, matematiche, e indagini naturali, morale, educazione, azione politica ed economica, ordinamenti giuridici vengono ad essere avvolti da questo spazio originario [aperto dalla filosofia greca, e così...] il cristianesimo e il linguaggio con cui la civiltà esprime il mondo;"[6]

Partendo da una delle parole a cui siamo più familiari, informatica, ci accorgeremo che molto di quello che diamo per scontato della nostra visione del mondo (e quindi, del nostro modo di interpretarlo, di capirlo e di affrontarlo) è il risultato di una lenta evoluzione nel pensiero occidentale e, soprattutto, del modo stesso di "pensare il pensiero", modo che può essere fatto risalire abbastanza convincentemente alle categorie mentali o, per usare un'espressione cara all'ermeneutica, agli "schemi d'interpretazione" del mondo classico greco-latino.

Dall'informatica all'idea platonica

Non per tediare più del necessario ma bensì per necessità di chiarezza e per avere un terreno di comune intendimento, daremo alcune definizioni di ordine generale che ci renderanno più chiaro come la cultura dei computer (l'informatica) sia strettamente (ma sottilmente) connessa alla tradizione filosofica-concettuale che più di tutte ha influenzato (creandola, si può dire) la cultura occidentale: quella inerente all'idea.

Oggigiorno è noto pressoché a tutti e sicuramente ai qui presenti che la parola 'informatica' deriva dall'espressione infor-mazione auto-matica (dal francese, M.Dreyfus 1962). Analizziamo questi due termini: informazione e automatica.

Con il termine 'automatica' siamo soliti intendere (abbastanza pacificamente) 'acquisita, elaborata, memorizzata da macchine dotate di una certa autonomia riguardo all'intervento diretto dell'uomo'. Ma cosa significa 'macchina'? E cosa 'dotata di autonomia'?

Macchina deriva dal greco mechané (mhcanh) che a sua volta deriva da méchos (mhcoV), mezzo, rimedio, espediente [7]. La definizione più generale di macchina è quella per cui essa è vista come un insieme funzionale composto da parti chiaramente definite, cioè da dei 'meccanismi', tale che le sue funzioni (sia interne che esterne) si possano comprendere conoscendo le parti che lo compongono e il modo in cui esse interagiscono [8]. Ci preme far notare che non è affatto necessario che una macchina debba essere esclusivamente fisica, cioè fatta unicamente di leve e ruote dentate oppure solo di transistor, flip-flop e cose del genere: si richiede che essa sia dotata di parti interagenti in un 'meccanismo', cioè in un processo funzionante [9]. Il concetto di macchina, così generalmente espresso, sta ovviamente alla base delle interpretazioni cosiddette 'meccanicistiche' che la scienza occidentale dà dell'oggetto del proprio studio e ispira lo stesso concetto di 'modello teorico' di un fenomeno naturale (qualora di esso si voglia dare una spiegazione, un'interpretazione cioè, causale e meccanicistica [10], appunto). E' con naturalezza, quindi, che ci colleghiamo con il concetto dato durante il corso dal Professore Somalvico, di macchina come 'reificazione di un modello di un fenomeno'.

Una macchina, d'altro canto, è autonoma quando ha in sé, nella propria struttura, o nella propria memoria, il proprio comportamento, cioè ciò che deve fare [11].

Ai fini della nostra trattazione un elaboratore [12] (nell'architettura di Von Neumann) è una perfetta macchina autonoma. Ma, alla luce di quanto detto, qual è la definizione più generale per elaboratore?

Un elaboratore è una macchina (sia fisica che 'processuale') costruita e progettata in modo tale che una particolare combinazione di sue modificazioni fisiche possa essere interpretato come un calcolo. D'altro canto un calcolo è un'operazione eseguita su simboli, cioè su qualcosa che rappresenta ciò che sta a indicare (ad esempio il simbolo 3 rappresenta il numero tre). Anche in questo caso l'etimologia ci rende più chiaro questo fondamentale nesso logico. Calcolo non deriva che dal latino calculus (a sua volta da calx, calce) che vuol dire 'sassolino'. Chi non si ricorda le primissime operazioni aritmetiche che ci coinvolsero nella prima classe delle elementari? Con le matite o con le nostre stesse dita, o certo avremmo potuto farlo anche con dei sassolini, cercavamo di capire che 3+2=5 e cioè che se a tre sassolini ne aggiungo due, alla fine ho cinque sassolini. Come la moderna pedagogia ben sa, il passo fondamentale nell'apprendimento dell'aritmetica da parte dei bambini non risiede nella correttezza del calcolo in sé (che potrebbe essere eseguito anche a memoria, dopo un po' di esercizio) ma bensì nella capacità del bambino di astrarre dall'esempio quantitativo le corrispondenti regole simboliche. In poche parole si richiede che il sassolino perda la sua natura materiale per divenire 'simbolo', semplice componente di un calcolo. Con la parola simbolo intendiamo infatti qualcosa che designa un'altra entità, distinta da sé (solitamente astratta) in virtù di una certa corrispondenza logica [13]. Nell'antica Grecia il simbolo (sumbolon) era nient'altro che un oggetto d'argilla che veniva spezzato in due dalla famiglia che ospitava uno straniero pellegrino: una metà veniva data all'ospite e l'altra metà veniva tenuta dal proprietario della casa. Veniva così stabilità una specie di relazione, di corrispondenza, che legava le due rispettive famiglie in un forte (sebbene invisibile) vincolo di riconoscenza e amicizia.

L'avere ora individuato l'importanza della logica e del ragionamento simbolico nella cultura dei computer (essi non funzionerebbero a prescindere da questi concetti...) rende maturo il momento di passare al cuore della questione: il processare simboli, poiché esso di fatto in-forma la struttura della macchina (sia essa fisica o logica), crea, o meglio, fa sorgere informazione [14]. E la parola informazione, dal momento che essa ha in sé molte e profonde connotazioni epistemologiche e gnoseologiche, è la parte della parola 'informatica' che può riservare il maggior numero di sorprese: sarà infatti cercando e trovando i nessi profondi che vi sono tra il concetto di informazione e quello di rappresentazione/idea che questa discussione avrà espletato il compito che si prefigge.

Nella lingua italiana il termine 'informazione' ha fondamentalmente quattro accezioni: una convenzionale, due tecniche e una che definiremo 'essenziale'. Non c'è una vera e propria differenza tra di esse ma bensì un diverso modo di affrontare e 'mettere in luce' quello che, evidentemente, è il medesimo fenomeno [15]. Convenzionalmente con tale termine si intende una notizia o un ragguaglio, qualcosa che si dà (o si cerca) per sapere o per venire a conoscenza di qualcosa. In ambito tecnico-scientifico si può distinguere tra la definizione data nel contesto della 'teoria dell'informazione' e quella più specificamente nota nell''Ingegneria dell'Informazione': per l'una vi si associa principalmente il concetto di segnale, di qualcosa cioè, che codificato opportunamente in un messaggio, trasmette (o porta con sé) della conoscenza [16]. Per l'altra si intende generalmente l'operando di particolari macchine (modelli) che elaborano, a loro volta, modelli, rappresentazioni del naturale [17].

Nella nostra discussione, invece, ci soffermeremo sull'accezione che abbiamo chiamato 'essenziale', volendo indicare con tale attributo semplicemente il fatto che essa, essendo etimologicamente vicina ad una millenaria tradizione concettuale, può indicare più facilmente delle altre l'essenza stessa della questione [18]. Secondo tale definizione essa é "l'atto o l'effetto dell'informare o dell'informarsi" [19].

Tale accezione trova una delle sue primissime (e autorevoli) attestazioni in Dante Alighieri (intorno al 1306: "Il movimento celestiale...dispone le cose...a ricevere alcuna informazione"). Va però ricordato che per 'informare' si intendeva allora una cosa leggermente diversa da quello che si intende oggi: egli intendeva propriamente in-formare, dare forma.

Era questo il significato originario latino, tant'è che l'informator era 'colui che organizza', mentre lo informator litterarum era il maestro che impartiva i primi elementi agli 'scolari' del II e III secolo dopo Cristo (e di fatto, modellava i suoi alunni, dava loro una prima forma...). Eppure se il mondo latino non fosse stato influenzato dalla cultura greca com'è stato, noi oggi non chiameremmo l'informatica... 'informatica' e preferiremmo l'espressione anglosassone 'computer science'. Infatti, dapprincipio, informatio indicava principalmente la 'raffigurazione' di qualcosa, nel senso concreto, fisico del termine, e cioè il suo disegno o anche semplicemente il suo 'schizzo'. Ancora oggi, poiché ci scorre ancora un po' di sangue latino nelle vene, quando pensiamo alla 'forma' di qualcosa, di un oggetto, pensiamo al suo aspetto esteriore, al 'com'é' piuttosto che al 'che cos'è', quasi addirittura al suo contorno, alla sua... silhouette.

L'assimilazione da parte della cultura latina di concetti e idee peculiari del pensiero greco fu un processo evidentemente lento e graduale ma si è soliti far risalire a Marco Tullio Cicerone (I secolo a. C.) l'inizio di una stagione di grande interesse da parte dell'élite culturale romana per il mondo ellenico-ellenistico.

"Anche la rapidità della composizione delle sue opere filosofiche sta a dimostrare che si tratta soprattutto di compilazioni da fonti greche.[...] si tratta di "ricucire" le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. [...] una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini greci, [...]. Risultato di questa sperimentazione fu l'introduzione nel latino di molte parole nuove; Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas (poiòtes), quantitas (posòtes), essentia (ousìa), e così via."[20]

Cicerone, quindi, si impegnò sistematicamente nello studio della cultura ellenica e cercò, nelle sue numerose opere, di esprimere le molte sottigliezze del pensiero filosofico greco per mezzo dei più concreti (e pragmatici) termini latini [21]. In particolare è soprattutto in quel periodo storico che informatio incominciò a designare un concetto fondamentale ai fini della nostra discussione, e cioè quello di 'rappresentazione mentale', idea. Con tale termine Cicerone cercò di tradurre letteralmente la corrispondente parola greca per 'forma', éidos (eidoV) [22], una parola che però serbava sottili ed evanescenti (soprattutto per noi, duemila anni dopo...) connotazioni semantiche. Spiegare tale termine alla luce di ciò che intendiamo oggi per forma sarebbe non solo riduttivo ma anche fuorviante (quella accezione è tradotta in greco dalla parola morfé (morfh)); del resto la somiglianza con il termine italiano 'idea' coglie certo qualche nesso tra questi due concetti ma lascia pur tuttavia nascosti quelli più profondi che risultano essere anche quelli più fertili e interessanti per una discussione sul 'conoscere' umano e artificiale.

La parola èidos deriva dal verbo èidon che significa sia 'vedere' [23], 'osservare' che, nella sua forma òida, 'conoscere', 'comprendere'. L'importanza della parola èidon risulta chiara se si considera quanto il nostro attuale concetto di 'pensare' sia diverso da quello che ne avevano gli antichi. Con le parole di Vernon Pratt:

"Non esiste nulla nel nostro modo moderno di pensare che corrisponda alla 'forma'; ma, ad essere ancora più precisi, nella schematizzazione pre-moderna non esisteva nulla che corrispondesse pienamente al 'pensare'. Erano presenti i concetti di 'vedere', 'contemplare', 'calcolare', 'sognare', 'ricordare', 'gustare' ed altri ancora, ma questi non venivano raccolti sotto l'unica nozione di 'pensare'." [24]

L'importanza di tale termine risale certamente alla concezione di 'idea' che elaborarono prima Platone e poi il suo più famoso allievo, Aristotele, nelle loro rispettive concezioni del mondo e della realtà. Eidos deriva sì da 'vedere' ma "[...] nel linguaggio di Platone lo sguardo non è quello degli occhi, ma quello della conoscenza intellettuale; e l'aspetto e la forma non sono quelli delle cose sensibili, ma sono il significato dell'essere che [...] appare nello sguardo concettuale" [25]. Lo èidos, in parole povere, è ciò che rende un oggetto proprio il genere di oggetto che esso è. Se pensiamo ad una casa non pensiamo che essa sia la sua dimensione: ve ne sono di piccole o grandi. Non pensiamo neppure che essa sia ciò di cui è fatta: se la casa venisse demolita i materiali sarebbero gli stessi ma anziché una casa essi sarebbero un cumulo di macerie; in una casa cioè, c'è qualcosa in più dei materiali che la costituiscono: questo qualcosa in più che rende casa una casa è appunto la forma, l'idea di casa (noi diremmo forse che è la sua organizzazione, ma neppure un progetto architettonico é una casa...). Noi certo si può toccare, vedere un albero, quest'albero, ma non possiamo toccare, 'sentire' l'albero, l'idea di albero; eppure è con quella, mediante essa, che vediamo (nel senso di comprendiamo, pensiamo) sia quell'albero che tutti gli altri possibili. In altre parole l'idea è l'oggetto di una visione (o intuizione) intellettuale: "di contro al sensibile, molteplice e mutevole., l'idea rappresenta l'essenza intellegibile, sottratta al mutamento." [26]

Platone, inoltre, credeva che le idee, e solo le idee (le forme immutabili) fossero la vera realtà, mentre ciò che i sensi esperiscono fosse di secondaria importanza in quanto fallace, mera ombra. Diversamente dal suo maestro, Aristotele non pensò alle Idee come qualcosa di veramente esistente in un mondo oltre il pensiero (cioè di separato, altro, dal mondo sensibile...), ma bensì come creazioni della mente umana, come rappresentazioni che ci permettono di generalizzare e concettualizzare il mondo che ci circonda, quello stesso mondo che i sensi esperiscono in continuo divenire e perso in miriadi di particolari, l'uno differente dall'altro.

" L'idea [in Aristotele] non è una realtà privilegiata e separata dal mondo ma 'la forma incorporata indissolubilmente nell'unità dell'ente concreto" [27]. Per usare parole più semplici, potremmo dire che ogni ente, cioè ogni cosa (ma propriamente, 'ogni cosa che è' ...) è un sinolo (cioè una strettissima unione, una completa unità, un 'intero') di materia e forma; ma delle due componenti la seconda ha un ruolo di fondamentale priorità poiché la materia non si dà mai senza la forma (e non viceversa), in quanto qualcosa di completamente indeterminato, senza alcuna caratteristica (senza neppure quella di non averne...), pura potenzialità resa 'reale', concreta, dal principio di determinazione operato dalla forma. L'aspetto 'gnoseologico' (che è poi quello che ci interessa di più, in questa sede) è sottolineato dallo stesso Aristotele: "di ogni cosa si può parlare in quanto ha una forma e non per il suo aspetto materiale in quanto tale" [28], e cioè, niente di reale è immaginabile (pensabile) che non sia determinato (cioè che non sia concepibile con o mediante la sua forma...).

I fatti degni di nota, a questo punto sono due:

1) Innanzitutto il concetto di 'idea-forma' delle cose creava loro una dimensione non materiale, ma bensì mentale. Non è che, come si è anche detto, le cose acquistassero un loro 'spirito' o un'aura mistica immutabile ma bensì, per usare una metafora che spero chiara, diventavano opache alla luce della recezione sensoriale (che viene emanata dal soggetto, ancor più che dall'oggetto...) e diventavano così in grado di proiettare un'ombra, una loro immagine, una loro forma, sullo schermo 'mentale' dell'uomo. Con la sua visione del mondo, Platone, creava e sosteneva con grande efficacia (visto che ancora oggi la pensiamo essenzialmente come lui, e così la pensavano Aristotele, Descartes, etc.) il dualismo mentale/materiale. Questo dualismo è forse più potente (e comunque antecedente dal punto di vista logico e storico) a quello cartesiano di mente/corpo; tale dualismo instaura anche i poli intellegibile/percepibile, immutabile/diveniente e da ultimo, formale-simbolo/reale-significato, base di tutte le geometrie e matematiche.

2) Secondariamente la forma-idea di una cosa le fornisce un aspetto fondamentale di generalità. Non bisogna dimenticare, infatti, che la stessa parola italiana 'schema' deriva dal greco 'schma' (figura, maniera, forma, appunto)[29]. Soprattutto con Aristotele, le idee entrano nell'uomo in quanto suo modo particolare di conoscere, in quanto concetti, in quanto generalizzazioni (come il numero, la casa, la sfera, etc.) del mondo reale, che diviene, a sua volta, il mondo delle semplici istanze [30] di tali generalizzazioni. Nascono, per usare un'espressione colorita, gli stati discreti del mondo (che continua ad essere esperito dai sensi come un continuum 'informe'), e si rendono concettualmente disponibili i mattoni per una elaborazione simbolica (confinata nel nostro cervello, fino all'avvento dei primi calcolatori...) e logica del mondo. Nasce e si sviluppa appunto, ad opera di Aristotele, la logica, quale studio delle relazioni possibili tra concetti e tecnica per la creazione di proposizioni ed espressioni che dicano sempre di più e sempre più 'astrattamente' riguardo al mondo fisico.

L'idea di Aristotele, nonché il quadro concettuale e il pensiero di Platone, passarono sostanzialmente invariati attraverso i secoli, dai primi secoli dell'impero, per tutto il medioevo, fino all'inizio dell'età moderna. Tale concezione influenzò lo stoicismo, l'epicureismo, il neoplatonismo (in cui l'idea è vista come "oggetto interno dell'intelletto") e, attraverso le varie correnti (realiste, nominaliste, essenzialiste, etc.) della scolastica, costituì lo spazio concettuale in cui si mosse la cultura occidentale praticamente fino ai maturi sviluppi della scienza. Certo tale concezione ricevette parecchi contributi dalle varie filosofie che affrontavano di volta in volta le tematiche della conoscenza e del rapporto tra uomo e mondo 'esterno'; quelli più notevoli, in prospettiva gnoseologica, furono quelli datigli dalla logica stoica prima, e dal pensiero logico-matematico arabo, dopo (Averroè, Avicenna, etc.).

Tra i contributi forse più interessanti riguardo al nostro argomento, vi è quello del filosofo Epicuro di Samo [31]. Ci soffermeremo brevemente sul suo pensiero ("una commistione singolare di ostinato empirismo, metafisica speculativa e precetti intesi al raggiungimento di una vita tranquilla" [32]) poiché la sua teoria della conoscenza risulta essere per certi versi anticipatrice di ciò che chiameremo (arbitrariamente) la 'svolta cartesiana'.

Dall'idea aristotelica alle "fantasie" epicuree

L'esiguità delle opere che ci provengono direttamente da Epicuro (sebbene avesse fama di essere stato uno dei filosofi più 'prolifici' dell'antichità, le fonti migliori sul suo pensiero sono Diogene Laerzio, Lucrezio, Seneca, Cicerone e Plutarco) non ci impedisce di far risaltare quello che è il filo conduttore di tutto l'epicureismo, e cioè (almeno nei suoi aspetti più teorici) "l'impegno a contrapporre il dato immediato dei sensi ai procedimenti logico-analitici propri della metodologia platonica e aristotelica.[...] Epicuro ammise la distinzione tra universale e particolare, ma a differenza di Platone non riconobbe agli universali un'esistenza separata; né, a quanto pare, condivise l'interesse, che era stato di Aristotele, per le classificazioni secondo generi e specie." [33] La teoria epicurea della conoscenza ha per fondamento la percezione sensibile, in cui risiede il supremo criterio di certezza: l'evidenza (enàrgheia). In tale dottrina si possono notare alcuni aspetti che sembrano anticipare (in maniera marginale) quella che sarà la moderna concezione di oggetto/soggetto 'cartesiana' [34]: "tutti gli uomini hanno sensazioni (aistheseis) e queste non si producono da se stesse, ma sono prodotte da qualcos'altro [35]" esterno o interno che sia (la fame, per esempio, ha una causa interna...). Come dice lui stesso "è per la penetrazione in noi di qualcosa che proviene dagli oggetti esterni che noi percepiamo... le loro forme." [36]; ma la penetrazione di tali oggetti nel soggetto conoscente non è puramente intellettiva: quando, per esempio, noi sentiamo una campana che suona, pur sentendo effettivamente la campana suonare, noi esperiamo qualcosa che proviene dalla campana, cioè configurazioni di atomi (èidola, eidwla, che deriva pur sempre da eidoV...) che si dipartono, proprio come degli effluvi, dalla sua superficie esterna, così come da quella di tutti gli oggetti sensibili. Tali effluvi, a meno che essi non subiscano modificazioni della loro struttura durante la loro 'trasmissione' o a meno che noi stessi non li si interpreti maldestramente a causa di preconcetti sbagliati (si pensi alle illusioni ottiche), sono tali da produrre nel soggetto una rappresentazione ('phantasìa', fantasia) che è immagine fedele dell'oggetto. In poche parole i cosiddetti 'errori dei sensi' sono dovuti alle opinioni, ai giudizi e alle ipotesi che la ragione formula nell'intento di oltrepassare o di prevedere i dati sensoriali. Le rappresentazioni, d'altro canto, differiscono l'una dall'altra (in termini di evidenza o nitidezza) e, inoltre, differiscono in maniera importante dai 'giudizi', e cioè dall'identificazione delle rappresentazioni con gli oggetti. Altro punto degno di nota, che attesta la 'modernità' del pensiero di Epicuro è che le rappresentazioni, per quanto evidenti e distinte siano, non sono ancora 'conoscenza' in quanto è ancora necessario un movimento intellettuale con cui esse vadano classificate e distinte l'una dalle altre. Questo avviene attraverso le cosiddette prolépseis (prolhpseiV), o 'prenozioni' e cioè con dei concetti generali o rappresentazioni mentali che sono prodotte dal ripetersi e dalla conservazione in memoria di rappresentazioni sensibili (cioè sensazioni) evidenti e simili tra loro. In altre parole: vedendo diversi alberi, ce ne formiamo uno 'schema rappresentativo', nel quale inquadriamo ogni futura immagine simile; tali 'preconcetti' costituiscono allora una specie di memoria della nostra esperienza del mondo e sono ciò che ci permette di anticipare o prevedere sensazioni future (sono cioè 'conoscenza' del mondo). Conoscere cioè, è confrontare le sensazioni nuove (rappresentazioni sensibili) a confronto con le prenozioni (rappresentazioni mentali consolidate, ciò che noi comunemente chiamiamo 'concetti'), "e tutti i nostri giudizi circa gli oggetti muovono da queste esperienze memorizzate che classifichiamo facendo uso dei segni linguistici" [37].

Dall'idea alla mente

Alla luce di quello che abbiamo finora detto, 'pensare' può essere inteso come un 'manipolare rappresentazioni, concetti, proposizioni ' [38]; tutto ciò, poi, si potrebbe ridire un 'manipolare idee', o meglio ancora, un 'vedere le idee'. Questa ultima considerazione ci porta naturalmente alla scolastica: 'vedere', infatti, per Tommaso d'Aquino, era "afferrare la forma di una cosa", capirla (noi diremmo 'rappresentarsela nella mente') [39]. Viene ora riconosciuta, nella facoltà intellettiva, una duplice funzione: astrarre le rappresentazioni sensibili dalle determinazioni particolari del divenire e ricevere (vedere) la rappresentazione astratta, in modo da conoscerla dotata della sua 'universalità concettuale'.

A questo punto è fondamentale capire che secondo la visione dell'Aquinate e quindi di gran parte della filosofia medioevale 'ortodossa', la relazione tra soggetto e oggetto non era quella che intercorre tra un manipolatore e una cosa manipolata (tra, propriamente, un oggetto e un soggetto), ma era piuttosto una relazione tra un intelletto e una cosa che l'intelletto ha capito dell'oggetto, appunto la sua forma, la sua realtà immateriale, la sua realtà intelligibile.

"L'intelletto agente, quindi, rende intelligibili le cose, 'astraendo' le forme intelligibili delle cose dalla materia in cui esse sono individualizzate. L' 'astrazione' è il conoscere stesso, ed è per l'astrazione che l'anima, come dice Aristotele, "è in certo modo tutte le cose": l'anima è le cose stesse, non nel senso che nell'anima esista la materia delle cose, ma nel senso che, mediante l'astrazione, esiste nell'anima la forma delle cose, astratta da esse mediante l'intelletto agente."[40]

In un certo senso, cioè, non si era ancora consolidata, fino al Rinascimento, una relazione moderna tra oggetto e soggetto; questa fu più volte abbozzata o semplicemente intuita, come in Epicuro, ma più spesso idea e rappresentazione, pur sottintendendo concetti simili [41], rimanevano 'sostanzialmente' diversi.

La graduale trasformazione di un concetto nell'altro, riveste, secondo autorevoli critici (Pratt, Rorty, etc.), un'importanza decisiva per la nascita della scienza moderna e delle attuali concezioni di 'conoscenza' e 'pensiero'. Fu con Hobbes, Cartesio e gli empiristi inglesi (Locke, Berkeley, etc.) che l'idea, da fondamento ontologico si trasformò gradualmente in 'contenuto di pensiero'. In Hobbes si dà, per la prima volta, il concetto di 'pensiero' come 'operazione sulle rappresentazioni'; In Descartes l'idea (e con essa intendeva, come in una celebre definizione di Locke, 'qualunque cosa sia oggetto di comprensione quando l'uomo pensa') era tutto ciò che è concepito dalla mente, sia che la provenienza di essa fosse l'esterno (idea sensibile o 'avventizia'), l'interno di noi stessi ('fattizia', autocostruite), o che essa fosse indipendente tanto dalla nostra sensibilità che dall'immaginazione ('innata').

"Cartesio considerava la mente una coscienza soggettiva contenente idee che corrispondevano (o talvolta non riuscivano a corrispondere) a ciò che esisteva nel mondo."[42] Non si diede, però, una nuova nozione di forma ma piuttosto "si costruì un nuovo punto d'osservazione, da cui tutto appariva in modo differente. [...] si giunse a concepire in modo nuovo la relazione fra l'essere umano e il mondo: il che significa, di per sé, vedere le cose con una nuova prospettiva. L'innovazione del diciassettesimo secolo è costruita dalla nostra visione moderna dell'essere umano come entità distinta dal 'mondo', costituendo così il tipo di cosa che deve avere una qual sorta di 'relazione' con il mondo. [...] Nella percezione, è ora l'occhio della mente che effettua l'atto del 'vedere'. [...] Il mondo è reso accessibile nella percezione solo per mezzo di rappresentazioni. [...] La nozione di 'idea' divenne il nuovo concetto fondamentale. Dove la visione [precedente] aveva visto la percezione in termini di una persona che condivide la forma dell'oggetto visto, in base alla nuova prospettiva l'oggetto è rappresentato di fronte alla mente mediante un'idea; le idee sono entità 'mentali', gli unici elementi con cui la mente possa interagire direttamente, ma rappresentano le cose non-mentali, [...] e dal momento che il pensare richiede manipolazione, le idee sono quello che manipoliamo" [43]

Questa nuova concezione di idea fu dunque la 'conditio sine qua non' per la nascita di quella che Husserl chiama la concezione oggettivista della scienza 'stile galileiano'. Ma non solo: in seguito a questa 'svolta', si suole dire (con linguaggio efficacemente colorito) che nacque, nella cultura occidentale, un concetto relativamente inaudito, almeno nella sua nuova accezione: il concetto di mente. Oggi siamo tanto affezionati e abituati a questa idea che ci sembra assai strano ci possa essere stato un tempo, nell'antichità, in cui essa non sia stata considerata come lo è ora; chi mai, ai giorni nostri, dubiterebbe di avere una mente (o, ancor più, di essere una mente...)? Eppure tale convinzione si basa tanto sul senso comune quanto su ciò che nel senso comune è riuscito, col tempo, a filtrare del concetto di 'res cogitans' cartesiana. In questo 'nuovo' ambiente, fittizio, dentro le nostre teste, gli uomini del Rinascimento misero "sensazioni fisiche e percettive, le verità matematiche, le regole morali, l'idea di Dio [...] e tutto il resto di ciò che noi oggigiorno denominiamo 'mentale'" [44]. Tra le altre cose, venne così costruito 'l'ambiente ideale' per la coltivazione della matematica (il cui sviluppo fu stimolato anche da importanti cambiamenti nella forma dei rapporti d'affari e dalla nuova stagione delle esplorazioni marittime), e cioè della regina del paradigma del 'pensiero come rappresentazione'.

"Il sorgere della matematica [...] offrì un modello non solo per la nuova categoria del pensare in generale, ma anche, grazie al suo rigore e formalismo, per il tipo speciale di pensiero noto come 'ragionamento' - la cui meccanizzazione costituì l'ambizione di Leibniz."[45]

La matematica e il suo notevole sviluppo, anche in seno alle discipline più sperimentali quali la fisica e la chimica, sarebbe stata destinata a rinforzare il paradigma cognitivo basato sull'idea del 'pensare come manipolazione di rappresentazioni mentali', fino alla creazione di un secondo paradigma, sicuramente già implicito nel precedente. In esso, grazie alle rivoluzionarie idee di Babbage e Boole, divenne ipotizzabile anche un modo di pensare inteso come un 'operare su simboli' e quindi divenne concepibile la sua meccanizzazione ad opera di macchine 'calcolatrici' autonome: l'approccio computazionale alla mente era così fondato e destinato a produrre, nella stagione aperta nel 1956 con la presentazione, al congresso di Dartmouth, del manifesto programmatico dell'Intelligenza Artificiale, il suo più ambizioso progetto.

"Nasciamo una volta sola, due volte non è possibile. E poi bisogna non esistere più per sempre. Tu, invece, che non sei padrone del tuo domani, rimandi l'occasione; la vita può trascorrere durante il tuo indugio, e ciascuno di noi muore senza aver goduto la vera serenità."

[Epicuro, Gnomologio Vaticano, 14]

Riassunto: Il termine 'informatica' contiene in sè, attraverso il concetto ivi implicito di 'informazione', il nocciolo più profondo di ciò che costituisce la cultura e il modo di pensare occidentale. Questo nocciolo è costituito dalla dualità fondamentale tra intellezione e sensazione [46], che risale fino alla più antica speculazione filosofica greca (si pensi anche al concetto di Logos). Tale dualità, che per certi versi è corrispondente a quella quella tra mentale e ciò che la mente 'sente' come esterno a sè, è il sostrato per tutti gli altri dualismi che 'formano' il pensiero occidentale: quello cartesiano di res cogitans, res extensa (mente/corpo), quello gnoseologico rappresentazione/mondo reale, e quello 'computazionale' simbolo/significato. In essi si danno quegli spazi intellettuali e concettuali che rendono concepibile e possibile lo sviluppo e la realizzazione di macchine rappresentazionali, e cioè delle 'macchine dell'informazione'.

 

 

Federico Cabitza

studente di Ingegneria Informatica al Politecnico di Milano

email: fedecabitza@iname.com

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

NOTE

  1. Zingarelli N., Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1984, pag. 1364, corsivo mio
  2. Dennett D., La mente e le menti - verso una comprensione della coscienza, Sansoni Editore, Milano, 1997, pag.81
  3. Severino E., Filosofia, vol II, Sansoni editore, 1991, pag. 8
  4. Severino E., op. cit., pag. 9, corsivo dell'autore
  5. Qui si sottintendeno alcuni interrogativi importanti: cosa è modellizzabile (cioè formalizzabile) dell'umano conoscere? Che cosa sono, cioè cosa realmente rappresentano, i modelli che l'uomo estrapola, 'abduce' riguardo al suo modo di ragionare (che è a sua volta 'ragionato) ? E cosa rappresentano per noi tali modelli, alla luce dell'obiettivo che ci si prefigge di emulare l'intelligenza umana, piuttosto che di simularla?
  6. Severino E., Filosofia - Lo sviluppo storico e le fonti, vol. I, pag. 3, Sansoni, Firenze, 1991, corsivo mio.
  7. ...ma è interessante notare che deriva dall'indoeuropeo 'megh', potere.
  8. cfr. Gregory R., La mente nella scienza, EST, Milano, 1985, pag.87
  9. E' ovviamente solo una questione di convenzioni, ma dire che una automobile che corre in autostrada è una macchina (funzione=locomozione) mentre quella ferma in garage è al più una 'macchina non funzionante' (al più, cioè se si è sicuri che sia effettivamente una macchina (sebbene solo in potenza) e che non le manchi nulla di essenziale per il suo funzionamento) è (forse) la convenzione più elegante e quella che porta a meno fraintendimenti di carattere...'informatico'.
  10. ...per cui ogni effetto ha una causa e conoscendo il funzionamento di tutte le parti e il modo in cui esse interagiscono è noto il funzionamento del loro insieme. Si ricordi l'analogia ottocentesca dell'universo 'orologio'...
  11. Un cacciavite salvavita, semplicemente per come è fatto, 'ha' in sé ciò che può fare ma non la possibilità di farlo da solo; un orologio, al contrario, se caricato opportunamente, segnerà le ore indipendentemente dal suo... orologiaio.
  12. Scegliamo qui di tradurre 'computer' non con la parola 'calcolatore' ma con il termine più generale di 'elaboratore', scelta che si renderà più chiara con il prosieguo della discussione...
  13. cfr. Ganascia J.G., L'intelligenza artificiale, il Saggiatore, 1997, pag. 58
  14. Vorrei essere più chiaro, su questo punto: cosa ci fa dire che 'processare un calcolo' crei informazione? Un calcolo è un'operazione su simboli; i simboli sono 'rappresentanti' (per esempio 011, in codifica binaria, rappresenta il numero tre); la loro elaborazione costituisce (crea, fa insorgere...) una rappresentazione; una rappresentazione che in-forma la struttura (o le modificazioni di tale struttura, e cioè il processo), e che così crea informazione. Perciò si dice anche che 'informazione' è ciò che è elaborato da un computer, cioè ciò che 'entra' e che 'esce' da un 'macchina dell'informazione', appunto. A riguardo, in letteratura, si trova anche una versione più 'spinta' che prende le mosse proprio da questa conclusione: nella struttura del 'calcolatore' sorgerebbe informazione poiché verrebbe a crearsi un vero e proprio collegamento (un riferimento, un'intenzione) tra essa e un significato (sempre che si intenda la semantica di un processo di calcolo consistente nell'insieme di vincoli inerenti alla sintassi agente su di esso...). Quando si parla di 'unità di misura dell'informazione' si parla generalmente di 'bit' (binary digit): a parte le definizioni date dalla teoria dell'informazione e... dai costruttori di memoria di massa, il bit è, dopotutto, semplicemente, il risultato di un calcolo: anche se può suonare strano si pensi al calcolo più semplice, e cioè a quell'operazione su un simbolo (quale può essere appunto interpretata la presenza o meno di tensione in uscita ad un flip-flop o la presenza o meno di flusso magnetico sulla superficie di un disco rigido) che consiste, semplicemente, nell'accedere ad esso. D'altronde, in letteratura anglofona, il bit è sempre definito una choice, (per esempio, ne 'The American Heritage Dictionary of the English Language, Third Edition' esso è "a unit of information equivalent to the choice of either of two equally likely alternatives") e così, nell'ancor più precisa "Enciclopedia delle Scienze Garzanti" (pag 216), il bit è definito come "la quantità di informazione che si acquisisce venendo a conoscenza di quale si sia verificato (o di quale sia stato scelto) fra due eventi incompatibili..." (corsivo mio). Di fatto, in questa nota, non si è detto nient'altro che la sequenza di bit 0101001101101001 è un'affermazione solo a seconda del contesto in cui essa è processata, o anche, che essa codifica la sequenza di lettere latine 'Si' solo se il processo che accede ad essa ne viene in-formato di conseguenza...
  15. 'fenomeno' qui inteso nel suo senso più lato e generale, cioè in quello di aspetto, modo di mostrarsi (dal greco fàinomai) della natura (intesa, arbitrariamente, come unione tra mondo esterno e mondo interno, tra uomo e altro da sé...).
  16. Nyquist H., 1924 - Shannon C.E. 1948
  17. cfr. appunti del corso di Intelligenza Artificiale tenuto dal Prof. Marco Somalvico al Politecnico di Milano
  18. Ci preme ancora ricordare, comunque, la natura prettamente 'convenzionale' di tali definizioni: non avevamo nessun'altro scrupolo che non fosse quello della chiarezza di contro a qualsiasi perplessità o equivoco nominalistico.
  19. Zingarelli N., op.cit. pag.
  20. Conte G.B. - Pianezzola E., Storia e testi della letteratura latina, vol. II, Le Monnier, Firenze, 1991, pag. 140 - 147 corsivo degli autori. Nella lingua latina esistevano sì gli aggettivi 'qualis' e 'quantus', nonché il verbo 'esse', ma non i concetti astratti che li sottintendessero.
  21. Il primo a lamentare "la povertà della lingua patria" era stato Lucrezio (De Rerum Natura, I 830: "[...] nec nostra dicere lingua concedit nobis patrii sermonis egestas, [...])
  22. ...da cui, ovviamente deriva la nostra parola 'idea'.
  23. Sia èidon che il latino video (e quindi l'italiano 'vedere') derivano dall'antichissimo termine sanscrito 'VEDAH'. Si può ben dire che una parola moderna come 'video' (inteso come monitor o schermo) ha origini che si perdono nella notte dei tempi...
  24. Pratt V., Macchine pensanti -L'evoluzione dell'intelligenza artificiale, Il Mulino, Bologna, 1990, pag. 19
  25. Severino E., op. cit., pag.123, corsivo dell'autore
  26. cfr. Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, 1981, pag. 418
  27. cfr. Enciclopedia Universale Rizzoli-Larousse, vol. VII, pag. 669
  28. Aristotele, Metafisica, VII, 1035a
  29. In particolare, in Kant (Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, II 1) lo 'schema trascendentale' è una rappresentazione intermedia tra sensibilità e intelletto, che rende possibile l'applicazione delle categorie ai fenomeni, e cioè l'elaborazione dell'esperienza sensibile per mezzo dei concetti 'astratti' (puri) della mente (intelletto).
  30. 'istanza' nel senso inglese e informatico del termine ('instance': caso, esemplificazione, contingenza, circostanza, etc.)
  31. Epicuro (Samo, 341 a.C., Atene 270 a.C.). Aristotele morì quando Epicuro aveva 20 anni. In tale periodo storico si può dire compiuto il grande processo di trasformazione del mondo greco che si è soliti far incominciare con la guerra del Peloponneso: per via degli insanabili e violenti contrasti interni, la Grecia ha ormai perso l'egemonia politica nel mediterraneo orientale ed è assorbita nel mondo delle provincie macedoni. D'altro canto, proprio grazie all'azione militare di Alessandro Magno, la cultura greca ha potuto estendersi a vastissime zone e la sua lingua, la koinè, è divenuta la lingua comune fra i molti popoli del vicino oriente. Ciò nondimeno la nuova situazione politica e sociale ha mutato radicalmente il rapporto tra l'uomo greco e il suo mondo e di conseguenza ha influito grandemente anche a livello di speculazione teoretica e filosofica. In questo rinnovato contesto "centro d'interesse non è più la natura e la sua costituzione, bensì l'uomo; e non l'uomo di Socrate e di Platone ma questo singolo che deve vivere nel concreto presente [...]. L'indagine sul pensiero e sulla natura sono viste in funzione dell'interesse morale: servono cioè solo in quanto forniscono elementi utili a risolvere il problema della felicità personale." (Epicuro, Lettere e massime, La Scuola, Brescia, 1976, pag. XXX). Figlio del suo tempo, Epicuro divideva la filosofia in logica (in cui si ricercano criteri di certezza), fisica (in cui si escludono ogni forza trascendente l'uomo) e morale (intesa come via per il retto uso dei piaceri e per la sopportazione dei dolori). Il suo pensiero, pervenutoci soprattutto da fonti secondarie (della sua folta produzione filosofica ci rimangono tre epistole dottrinali, le Massime Capitali e alcune sentenze 'aforistiche' nel Gnomologio Vaticano Epicureo. Papiri di recente scoperta (ca. 1750) ci hanno restituito frammenti di opere perdute tra le quali spicca 'Sulla natura delle cose' in 37 libri) è riassunto da un celebre frammento denominato 'tetrafarmaco' che qui riportiamo: "...basta che si tengano presenti i 'quattro rimedi': la divinità non fa paura; la morte è priva di ogni rischio; il bene facile da acquistarsi e il male è facile da sopportarsi.". Poco più che trentenne, Epicuro fondò la sua scuola filosofica (qualcosa di simile ad un circolo culturale, con sede nel 'giardino' (kèpos) di casa sua), destinata a diventare una delle maggiori dell'età ellenistica, nonché ad avere grande seguito anche in seno alla società romana. Di formazione democritea ma attento conoscitore del pensiero platonico e aristotelico, prese spesso posizioni polemiche nei confronti della stessa scuola platonica (e socratica) nonché contro le scuole dei cinici, dei megaresi e degli stoici. La sua filosofia si prefiggeva sostanzialmente il fine di dare la conoscenza riguardo alla vera natura delle cose, della morte e degli dei, nonché quella dei propri desideri, del piacere e del dolore. L'universo è concepito in maniera sostanzialmente meccanicistica, come il susseguirsi delle infinite combinazioni possibili degli atomi, le innumerevoli particelle corporee indivisibili che costituiscono la materia. L'uomo è un fenomeno naturale come gli altri, un aggregato d'atomi in movimento: l'anima stessa è un corpo di atomi sottili e veloci, sparso per tutto l'organismo. La morte, quindi, non è che il disgregarsi della sua struttura ("nulla ha origine dal nulla", Lettera ad Erodoto, III) e di conseguenza è mera 'privazione di sensazione' (anaisthesìa) : in tale prospettiva gli appare quindi sciocco ogni genere di timore superstizioso ("Dunque il male che più ci fa rabbrividire, la morte, è nulla per noi, dal momento che quando noi viviamo, la morte non c'è, e quando invece c'è la morte allora non ci siamo più noi.[...] Il saggio non cerca di godere il tempo più lungo ma il migliore." Lettera a Meneceo, II). Anche gli dei non devono essere fonte di affanno o timore per gli uomini in quanto, anche se la loro esistenza è data per certa, essi non si curano dei destini umani e trascorrono eternamente la loro esistenza in una condizione di assoluta beatitudine e perfezione senza turbamento; parimenti il fine dell'uomo di verità è la vita beata, e la felicità consiste nella privazione del dolore fisico e di quello morale ("Quando noi diciamo che il piacere è il fine ultimo , non intendiamo parlare dei piaceri dei dissoluti, [...] ma bensì intendiamo parlare di mancanza di dolore nel corpo (aponìa) e della mancanza di turbamento nell'anima ( ataraxìa)" Lettera a Meneceo, IV). Nel campo del conoscere l'uomo è guidato dai criteri del vero e del falso, cioè dalle sensazioni e dalle anticipazioni, ma i criteri di scelta o di rifiuto, nel suo agire, sono le affezioni del piacere e del dolore. Dato che le azioni umane non sono sottoposte né alla divinità né al fato ma bensì alle passioni e all'arbitrio dell'uomo, Epicuro riafferma spesso la responsabilità dell'uomo di fronte alle proprie azioni e comportamenti. Nel suo pensiero, inoltre, viene posta in evidenza l'amicizia (il suo 'giardino' era, in definitiva, una comunità di amici che vivevano in conformità a dei principi comuni) intesa come l'unica forma di comunità che non comprometta la libertà interiore dell'individuo, ma anzi lo migliori in un libero e disinteressato scambio di benefici e nella messa in comune di idee e sentimenti ("L'uomo d'animo nobile si sofferma soprattutto sugli studi di filosofia e sull'amicizia. Di questi beni l'uno è mortale, l'altro immortale." Gnomologio vaticano, 78).
  32. Long A.A., La filosofia ellenistica, Il mulino, Bologna, 1991, pag. 32
  33. Long A.A., op.cit., pag.32
  34. "Ma Epicuro, distinguendo nelle affermazioni relative al piacere, il corpo e l'anima, non ha certo in mente un dualismo di stampo platonico. Il corpo e l'anima sono in contatto fisico l'uno con l'altra." da Long A.A., op.cit., pag.90. Del resto, nella lettera ad Erodoto (VII, 63-68) lo stesso Epicuro si esprime così: "[...]bisogna considerare l'anima come un corpo[...] che detiene la causa preponderante della sensazione, e certo non la deterrebbe se non si trovasse in un certo senso avvolta completamente da tutto il resto dell'organismo".
  35. Diogene Laerzio, X, 31
  36. Ep. Hdt. 49, corsivo mio
  37. Long A.A., op.cit., pag.37. Lo schema rappresentativo 'è' il nome che gli viene dato. Concetti e linguaggio si formano contestualmente, e quindi il linguaggio non ha mera funzione convenzionale ma è bensì un processo naturale inerente alla conoscenza.
  38. ...anche se in Aristotele la rappresentazione dovrebbe avere funzione 'intermedia' tra la sensazione e il concetto. (cfr. L'anima, 428b, 432a)
  39. In inglese questo è molto chiaro: infatti 'to see' oltre che 'vedere', 'osservare' significa anche 'capire', 'rendersi conto'...
  40. Severino E., op. cit., vol. I, pag.336, corsivo mio
  41. In Platone eikasìa (eikasia), stava sia per 'rappresentazione', 'immagine', che per 'immaginazione'.
  42. Varela F.J, La via di mezzo della conoscenza- Le scienze cognitive alla prova dell'esperienza, Feltrinelli, Milano, 1992, pag. 38
  43. Pratt V., op. cit., pag.26
  44. Rorty R., La filosofia e lo specchio della natura, Fabbri, Milano, 1986
  45. Pratt V., op.cit., pag.27
  46. In greco, la distinzione tra àisthesis e diànoia/nòos